ESG & Policy Research

Rischio spirale prezzi-salari? Un aggiornamento sul confronto tra mercati del lavoro USA ed Eurozona

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Tra crescenti timori di stagflazione e rischi di mutamento dei regimi di inflazione aggiorniamo il nostro confronto tra mercato del lavoro USA ed Eurozona ora che il Covid è sotto controllo e i benefit di disoccupazione statunitensi, accusati di disincentivare potenziali lavoratori dall’accettare posizioni, sono terminati. Gli ultimi dati confermano il pattern divergente due economie: mentre nei paesi dell’Euro il ritorno al pattern pre-Covid continua, negli Stati Uniti la curva di Beveridge rimane traslata verso un equilibrio dove coesistono alta disoccupazione e elevati posti vacanti. Tale dinamica segnala le forti frizioni che caratterizzano il mercato del lavoro statunitense: in primo luogo, più potenziali lavoratori cercano lavoro e più datori cercano lavoratori, segnalando che il processo di matching è in stallo, e in secondo luogo la curva è diventata pericolosamente verticale, il che significa che la carenza di lavoratori continua a peggiorare anche tenendo conto delle nuove frizioni post-covid. Va sottolineato che tali tensioni non possono essere spiegate semplicemente dalla ripresa: come enfatizzato dai payroll di settembre, che hanno aggiunto solo 194mila posizioni dopo un milione a giugno e luglio e 370mila ad agosto, l’occupazione rimane significativamente sotto il trend, pertanto le frizioni sembrano più una conseguenza delle politiche economiche che non un segno di un’economia che viaggia a pieno potenziale.

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Negli Stati Uniti e nell’Eurozona ai mercati del lavoro mancano rispettivamente il 5.9% ed il 3.9% dell’occupazione potenziale, ma va sottolineato che la performance relativamente migliore dell’Area Euro si spiega con l’implementazione della cassa integrazione, considerato che in termini di ore di lavoro aggregate gli USA mostrano una ripresa più rapida.

Per meglio comprendere in cosa differiscono le due riprese implementiamo una decomposizione degli shock di domanda e offerta di lavoro basati sulle variazioni di ore lavorate e salari[1]. Il modello mostra che, mentre nell’Eurozona l’offerta di lavoratori è stata il driver principale, l’opposto vale negli Stati Uniti, dove la domanda di lavoro da parte delle imprese ha quasi sistematicamente superato gli shock di offerta di lavoratori. Ciò sottolinea la diversa narrativa nelle due sponde dell’Atlantico: negli USA il fattore decisivo rimane che le imprese faticano a riempire i posti vacanti, mentre in Europa i lavoratori che avevano temporaneamente abbandonato la forza lavoro nelle fasi iniziali della pandemia hanno guidato la ripresa ritornando nel mercato del lavoro.

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Mettendo assieme gli indizi offerti dalla curva di Beveridge e dalla decomposizione degli shock il risultato punta verso un surriscaldamento del mercato del lavoro USA dovuto alle frizioni nell’offerta di lavoratori, mentre quello dell’Area Euro crescerebbe a un tasso più sostenibile. A supporto di tale tesi, annualizzare le variazioni dei salari mostra come quelli statunitensi stiano crescendo a un ritmo significativamente più alto rispetto al pre-pandemia, mentre il Europa il costo del lavoro rimane compresso[2].

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Le implicazioni di un crescente costo del lavoro – il principale fattore di produzione per l’impresa media – sono prezzi alla produzione più alti: da inizio 2020 gli Stati Uniti hanno cumulato un differenziale del 2.2% nell’indice dei prezzi industriali rispetto all’Area Euro.

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Finora il driver principale della crescita dei prezzi alla produzione sembravano essere stati i prezzi delle commodities. Ma recentemente negli USA la correlazione della componente lavorativa ha raggiunto quello delle materie prime, mentre in Europa il costo del lavoro complessivo è persino in calo[3].

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Complessivamente, ancora una volta sembra starsi verificando un decoupling la due aree economiche: mentre negli USA il mercato del lavoro continua a mostrare significativi e consistenti segnali di surriscaldalmento, nell’Area Euro assistiamo a una ripresa più sostenibile. Ciò che dovrebbe destare preoccupazione è che questo continua ad essere vero anche dopo il recente phase-out del pacchetto di sostegno Covid, che era stato presentato come potenziale causa per le frizioni nel mercato US, in quanto disincentivo per potenziali lavoratori dal rientrare nel mercato del lavoro. Alte frizioni nel matching, un più lento recupero dei livelli di occupazione, salari in accelerazione e prezzi alla produzione più elevati puntano tutti consistentemente verso preoccupanti attriti nel mercato del lavoro. Mentre parte della pressione sui prezzi alla produzione è chiaramente giustificata da più alti prezzi delle materie prime, il fatto che l’Eurozona non mostri segnali così forti di disfunzione del mercato del lavoro, offrendo invece una ripresa più ordinata, dovrebbe suonare un campanello d’allarme. In conclusione, mentre il rischio di una spirale prezzi-salari è al momento non esistente in Europa, esso non dovrebbe venire completamente ignorato negli Stati Uniti. Anche se la giuria non si è ancora espressa sul recente dibattito inflazione permanente VS inflazione transitoria, con il primo campo che sottolinea il CPI consistentemente sopra il 5% ed i secondi che indicano il Core CPI mese su mese, che annualizzato è tornato al 2%, se ci focalizziamo sul mercato del lavoro allora l’atteso tapering di Novembre della Fed sarebbe benvenuto, per quanto la politica monetaria da sola possa fare poco per rimuovere i colli di bottiglia e raffreddare il mercato del lavoro USA.


[1] Vedi Brinca et al. (2020) per la metodologia di decomposizione SVAR degli shock.

[2] Le differenze nella crescita della produttività del lavoro non sono ampie abbastanza da giustificare il gap nei costi del lavoro.

[3] I prezzi delle commodity usano come proxy il Primary Commodity Price Index; i costi del lavoro usano come proxy il LCI per l’Eruozona, Total Compensation per gli USA.