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Come superare lo stallo del veto sul Recovery Fund UE

Questo pezzo è stato pubblicato originariamente su Verfassungsblog.de

L’idea che l’erogazione di fondi Europei debba essere condizionata al rispetto dello stato di diritto ha giocato un ruolo di rilievo nelle negoziazioni del pacchetto da 750 miliardi Next Generation EU. Tuttavia, le conclusioni del Consiglio UE di luglio includono solo una vaga menzione del tema – segnale del mancato raggiungimento di un accordo al più alto livello politico.

Il 10 novembre, il Parlamento Europeo e la Presidenza tedesca raggiungevano un compromesso sul testo di un Regolamento che introduceva, nel contesto del bilancio UE, un meccanismo di condizionalità legato al rispetto dello stato di diritto. Lungi dall’essere uno strumento onnicomprensivo, questo meccanismo consentirebbe però di sospendere l’erogazione di fondi Europei in caso di violazioni che “incidano direttamente sul bilancio o corrano un serio rischio di farlo”.

I fautori del meccanismo sembravano sperare che la Commissione sarebbe stata ‘creativa’ nell’interpretare quali violazioni dello stato di diritto costituissero un rishio per il bilancio UE. Gli oppositori del meccanismo temevano l’ambiguità del testo per lo stesso motivo. Dopo l’approvazione a maggioranza qualificata del Regolamento da parte del Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER), Polonia e Ungheria hanno risposto ponendo un veto all’aprovazione della Decisione sulle Risorse Proprie (Own Resources Decision – ORD). L’ORD stabilisce il livello massimo di risorse che il bilancio UE può richiedere agli Stati membri, e l’aumento di questo limite è condizione necessaria affinché l’UE sia in grado di emettere le obbligazioni che dovranno finanziare il Recovery Fund (nome ufficiale: Recovery and Resilience Facility, o RRF).

A seguito del veto, Polonia e Ungheria hanno rilasciato un comunicato congiunto in cui si chiede una ‘sostanziale modifica’ del meccanismo di condizionalità al rispetto dello stato di diritto. Pensiamo che, dopo aver preso la dicisione politica di collegare l’approvazione del Regolamento all’iter negoziale del bilancio, la presidenza tedesca non dovrebbe ora indebolire il linguaggio del Regolamento. Tale scelta rafforzerebbe coloro che mettono in discussione i valori fondamentali dell’Unione, e allo stesso tempo alienerebbe quei Paesi che chiedevano invece una condizionalità ancora più stretta, il cui voto è altrettanto essenziale per l’approvazione della ORD. Il problema si risolverà solo con un confronto aperto al più alto livello politico. La domanda chiave, quindi, è se il veto sia o meno credibile.

Il veto è davvero credibile?

Sì e no. Questo è un gioco in cui la sequenza è fondamentale.

Se Ungheria e Polonia mantenessero il veto sulla ORD, sarebbe impossibile approvare il nuovo quadro finanziario pluriennale UE (QFP) entro fine anno. L’Articolo 312(4) del TFEU stabilisce che in tal caso si debba estendere al 2021 il bilancio del 2020, che a sua volta dipende dal QFP approvato nel 2014, e quindi ovviamente non contempla alcun Recovery Fund. Polonia e Ungheria sono tipicamente beneficiari netti del QFP, anche se la loro posizione potrebbe essere rivista al ribasso nel ciclo 2021-27. Bloccando la ORD, i due Paesi perderebbero la quota di sovvenzioni a cui hanno diritto dal Recovery Fund, ma otterrebbero comunque più fondi dal bilancio di emergenza rispetto alla maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale. Quanti fondi, dipenderà in ultima analisi dal rinnovo o meno dei programmi di spesa la cui base giuridica scade a fine anno. Come messo in luce da alcuni esperti, il Parlamento UE ha a lungo insistito per ‘scollegare’ i singoli programmi di spesa dall’iter di approvazione del QFP, proprio per preservare il flusso dei fondi nell’ipotesi in cui con ci fosse un accordo sul QFP. Le negoziazioni sui singoli programmi stanno infatti continuando, a dispetto del veto. Inoltre, i pagamenti diretti nel contesto della politica agricola commune continueranno in ogni caso, perché la loro base legale non è soggetta a limite temporale.

A un certo punto, anche Polonia e Ungheria ovviamente avranno bisogno di un accordo su un nuovo bilancio, ma quello che vogliamo mettere in luce qui è il fatto che questi due Paesi sono in una posizione relativamente migliore per sopportare un bilancio di emergenza di quanto non siano Paesi come la Spagna e l’Italia – che dal bilancio UE ricevono normalmente poco o nulla, e per cui la vera differenza la farebbe proprio il Recovery Fund.

Affinché il veto diventi insostenibile per Polonia e Ungheria serve quindi, a nostro avviso, la combinazione di due condizioni: (i) l’approvazione definitiva del Regolamento che introduce la condizionalità al rispetto dello stato di diritto nell’erogazione dei fondi Europei, e (ii) una minaccia credibile di un ‘Piano B’ per il Recovery Fund. La prima condizione cambia la sequenza del gioco: una volta approvato, il Regolamento si applicherà a tutta la spesa UE, incluso qualsiasi nuovo bilancio e anche il possibile bilancio di emergenza. I fondi che Ungheria e Polonia ricevono regolarmente saranno soggetti a scrutinio. Di per sè, questo non costituisce un incentivo sufficiente a rimuovere il veto – che potrebbe invece ancora avere senso se, mantenendolo, Ungheria e Polonia riuscissero davvero a bloccare il Recovery Fund per gli altri Paesi. Per togliere questo incentivo, il resto dell’UE deve mandare un forte segnale che esiste un piano B credibile per il Recovery Fund, fattibile senza Ungheria e Polonia. A quel punto, il veto non sarebbe più sostenibile: Ungheria e Polonia verrebbero escluse del Recovery Fund, avrebbero fallito nel bloccare il Recovery Fund per gli altri Paesi, ma rimarrebbero comunque soggette alla condizionalità sul rispetto dello stato di diritto per i fondi ricevuti dal bilancio UE.

Quindi qual è il Piano B?

Ci sono tre opzioni, a nostro avviso: una cooperazione rafforzata; una soluzione a geometria variabile tra Paesi euro e non-euro; e un accordo intergovernativo.

Cooperazione rafforzata: una maggioranza qualificata di Paesi potrebbe lanciare una cooperazione rafforzata, ovvero una procedura che consente ad almeno nove stati membri di stabilire un’integrazione più stretta in una determinata area all’interno delle strutture UE – ammesso che questa scelta non sia lesiva dei diritti dei Paesi non partecipanti. Questa procedura è stata utilizzata in passato, per esempio per creare la Procura Europea (EPPO), lo schema Europeo dei brevetti, e la tassa sulle transazione finanziarie. A questo punto, il Recovery Fund potrebbe essere autorizzato per conto dei soli partecipanti, da una maggioranza qualificata del Consiglio. Polonia e Ungheria potrebbero teoricamente obiettare che la creazione di uno strumento collegato al QFP atttraverso una cooperazione rafforzata sarebbe in violazione del loro diritto – in qualità di stati membri – di porre il veto sulle materie afferenti il bilancio Europeo. Questa obiezione sembra tuttavia poco solida,  perché la cooperazione rafforzata sarebbe il risultato diretto dell’esercizio di quel diritto di veto. Una volta ottenuta l’autorizzazione del Consiglio, i partecipanti dovrebbero a nostro avviso votare affinché la governance dell’iniziativa di cooperazione rafforzata avvenga a maggioranza qualificata – perché il Trattato stabilisce chiaramente che tutti i Paesi hanno diritto, se desiderano, di unirsi. Se Ungheria e Polonia decidessero di unirsi, la cooperazione rafforzata replicherebbe esattamente il perimetro del QFP, ma con una fondamentale differenza nel fatto che funzionerebbe a maggioranza qualificata, permettendo di aggirare il problema del veto. Se il Recovery Fund fosse creato tramite cooperazione rafforzata, il costo dovrebbe essere coperto dal gruppo di Paesi partecipanti. In un certo senso, questo creerebbe un bilancio a due perimetri: un bilancio dal perimetro a 27, modificato all’unanimità, che includerebbe Ungheria e Polonia ma non il Recovery Fund, e un bilancio dal perimetro più ristretto, modificato a maggioranza, finanziato dal gruppo di partecipanti alla cooperazione rafforzata per finanziare il Recovery Fund. La Commissione UE potrebbe ancora emettere obbligazioni per conto dei soli Stati membri partecipanti all’iniziativa: il rimborso dovrebbe essere deciso in una ORD limitata ai paesi partecipanti al bilancio a perimetro ristretto.

Framework speciale per i Paesi euro. Le disposizioni speciali per i paesi euro offrono un’alternativa per la costituzione del Recovery Fund. La base giuridica sarebbe simile a quella precedentemente individuata per l’ormai defunto Strumento di bilancio per la convergenza e la competitività (BICC), ossia l’effetto congiunto dell’art. 175(3) e art. 136 – il primo che consente azioni oltre i fondi strutturali e il secondo che consente un maggiore coordinamento della politica economica dei membri dell’Eurozona. Il vantaggio principale di inquadrare lo strumento in termini di stabilità dell’Eurozona è che Ungheria e Polonia verrebbero naturalmente escluse, e il trattato stesso fornisce il razionale per l’esclusione. Come illustra la recente posizione assunta dalla Slovenia, tuttavia, limitare il perimetro all’Eurozona non proteggerebbe di per sé il Recovery Fund dal rischio di un veto, a meno che l’Eurogruppo non abbracci esplicitamente un processo decisionale a maggioranza qualificata. Al contrario, altri Paesi non appartenenti all’Eurozona sarebbero naturalmente esclusi pur essendo ferventi sostenitori dell’iniziativa. Si potrebbe rimediare integrando lo strumento con le disposizioni fondate sull’art.143, che regola l’assistenza fornita con una deroga temporanea dall’appartenenza all’Eurozona. La base giuridica per un’azione autonoma dei Paesi euro, soprattutto per quanto riguarda stanziamenti di bilancio, è chiaramente più labile rispetto al caso della cooperazione rafforzata. Sebbene possibile, si tratterebbe nel complesso di una soluzione inferiore a quella di una cooperazione rafforzata, comportando rischi legali più elevati e una struttura molto più complessa.

Accordo intergovernativo ad hoc: un’opzione estrema sarebbe togliere il Recovery Fud dal bilancio UE, replicandolo in un accordo intergovernativo. Questa scelta comporterebbe due tipi di complicazioni. Sul versante della governance, le precedenti esperienze con l’assetto intergovernativo sono state orientate verso un processo decisionale unanime e complesso, comprendente in alcuni casi anche il coinvolgimento del parlamento tedesco su decisioni di natura finanziaria. Per attenuare questa preoccupazione, l’accordo intergovernativo potrebbe limitarsi a ‘copiare’ la struttura di governance stabilita nell’accordo del Consiglio di luglio, che già includeva un ruolo importante per la Commissione e per il Consiglio nella valutazione dei piani di spesa e nell’erogazione dei fondi. Il ricorso a un trattato intergovernativo non impedisce automaticamente l’attribuzione di funzioni agli organi esistenti dell’Unione: ad esempio, l’articolo 5 del trattato MES prevede collegamenti tra gli organi dell’Unione e il MES; gli articoli 5 e 8 del TSCG prevedono una serie limitata di nuove responsabilità attribuite alla Commissione, al Consiglio e alla Corte di giustizia. Supponendo che l’accordo di luglio sia stato concluso da tutti i firmatari in buona fede, in linea di principio non vi è alcun motivo per cui una trasposizione intergovernativa richiederebbe necessariamente una modifica della struttura di governance volta all’introduzione dell’unanimità, in particolare perché l’accordo di luglio già comprende una salvaguardia sotto forma del ‘freno di emergenza’ tanto richiesto dal governo olandese.

 Nel contesto intergovernativo, i Paesi partecipanti dovrebbero istituire una qualche forma di veicolo finanziario (SPV) per emettere le obbligazioni a finanziamento del Recovery Fund: una volta al di fuori del metodo comunitario, infatti, l’emissione non potrebbe più essere compito della Commissione UE. In passato, Eurostat è stata dell’opinione che il debito emesso da un SPV vada registrato come debito degli Stati membri – come evidente nella decisione relativa alla contabilizzazione della European Financial Stability Facility (EFSF). Nel caso del Recovery Fund, una decisione simile renderebbe nullo il vantaggio principale dello strumento – ovvero il fatto che l’erogazione di metà dei fondi avvenga sotto forma di sussidi invece che prestiti. Un argomento chiave nella decisione di Eurostat in merito all’EFSF era che quest’ultima non era sotto il controllo delle istituzioni Europee esistenti: anche questo problema potrebbe essere mitigato adottando la struttura di governance concordata a luglio, in cui Commissione e Consiglio hanno un ruolo chiaro e sostanziale nella gestione del Recovery Fund.

Resterebbe il problema che, una volta al di fuori del quadro comunitario, il Recovery Fund non sarebbe soggetto al controllo del Parlamento UE. Ma riteniamo che non dovrebbe sussistere alcuna difficoltà nel fornire un ruolo di controllo al Parlamento anche se lo strumento venisse costituito con un accordo intergovernativo – perché l’aggiunta di tale controllo comporterebbe una modifica sostanzialmente in linea con l’accordo concluso a luglio (in cui il controllo del Parlamento era automaticamente presunto, in quanto il Recovery Fund era pensato come parte del QFP).

Infine, alcuni sostengono che esistano barriere costituzionali (soprattutto in Germania) alla costruzione di strumenti di bilancio al di fuori del QFP. Questi argomenti si basano prinipalmente su una lettura letterale della decisione resa dalla Corte Costituzionale tedesca nel 2013, sul tema del Meccanismo di Stabilità Europeo (MES). Tuttavia, le questioni sollevate in quella decisione ci sembrano riguardare la relazione fondamentale tra il controllo democratico, i diritti dei cittadini tedeschi e la spesa pubblica – e quindi essere questioni sostanziali piuttosto che formalistiche. Sosteniamo quindi che un accordo intergovernativo che replichi la sostanza dell’accordo di luglio, inclusi i diritti di controllo conferiti al Parlamento, alla Commissione e al Consiglio, dovrebbe mitigare il rischio di obiezioni da parte di Karlsruhe. Se la legalità del Recovery Fund non è messa in discussione fintanto che esso fa parte del QFP, allora l’esistenza di un identico grado di controllo democratico ma fondato su una base giuridica diversa non dovrebbe alterare la valutazione. Dopotutto, l’Unione si è costituita su di una pluralità di trattati, fino a non molto tempo fa. Non vediamo un motivo per cui uno strumento come il Recovery Fund dovrebbe sollevare eccezioni di legalità dalla Corte Costituzionale tedesca, dal momento che non produce passività potenzialmente illimitate per i cittadini tedeschi (lo strumento concordato a luglio è limitato, e la procedura di rimborso dei fondi  sarebbe in un contesto intergovernativo ancora più chiara che nella versione originale, poiché l’incertezza relativa alla discussione sull’aumento futuro delle risorse proprie non esisterebbe più) e rimane sotto il controllo del Consiglio e del Parlamento durante tutto il processo, incluso un freno di emergenza agli esborsi. A queste condizioni, la semplice trasposizione da una governance comunitaria fondata sul TFUE a una governance comunitaria identica ma basata su una nuova base giuridica non dovrebbe a nostro avviso alterare la valutazione sostanziale della costituzionalità del RRF.

È ora di smascherare il bluff

L’UE sta vivendo un momento storico: il più grande passo in avanti in direzione di una più stretta integrazione economica mai compiuto (il pacchetto Next Generation EU e in particolare la RRF al suo interno) rischia di essere annullato dalle gravi tensioni sull’altrettanto vitale questione dello stato di diritto. Alla luce della più recente dichiarazione congiunta di Ungheria e Polonia, è ora di iniziare a pensare strategicamente. L’UE non dovrebbe scendere a compromessi sul rispetto dello stato di diritto: mantenere la posizione su questo è uno dei due elementi necessari per smascherare il bluff di Ungheria e Polonia. Il secondo elemento necessario è la minaccia di Piano B credibile per realizzare il Recovery Fund senza Ungheria e Polinua. Abbiamo discusso tre opzioni, tutte sub-ottimali rispetto al piano originale, ma che consentirebbero al resto dell’UE di dimostrare che l’impegno a promuovere l’integrazione economica e preservare i valori fondamentali è più solido dei ricatti, anche se ciò richiedesse di adottare una strategia più complessa di quella inizialmente programmata.